Riapertura delle Attività, Adempimenti e Rischi: risponde l’Avv. Angela Dell’Osso

Le pressioni giunte da più parti hanno cambiato la tabella di marcia del Governo, sfociando in una sorta di apertura generalizzata per tutti, anche se a determinate condizioni. Vediamo quali.

Abbiamo chiesto la consulenza dell’Avv. Angela Dell’Osso per avere un quadro chiaro sulle regolamentazioni necessarie e sui rischi e le conseguenze per il datore di lavoro.

Quali sono gli adempimenti che gli Imprenditori devono adottare per la riapertura delle attività nella cosiddetta “Fase 2”?

Gli adempimenti obbligatori per il datore di lavoro sono contenuti nel Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” non sanitari del 14.03.2020, successivamente integrato in data 24.04.2020. Tale Protocollo contiene delle prescrizioni che potremmo definire “generiche” e valide per tutti i settori di attività.
Il successivo DPCM del 17 maggio 2020 contiene le disposizioni in materia di contenimento del contagio da Covid-19 che regolano la riapertura delle attività nella cosiddetta “Fase 2”, valide fino al 14 giugno 2020 e precisa che le attività devono svolgersi nel rispetto dei contenuti dei Protocolli o delle Linee guida adottati dalle Regioni o dalla Conferenza delle Regioni.

Le“Linee di indirizzo per la riapertura delle Attività Economiche, produttive e Ricreative” elaborate dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome datate 16 maggio 2020 e successivamente integrate il 25 maggio 2020 contengono indirizzi operativi specifici, validi per i singoli settori di attività e sono finalizzati a fornire uno strumento sintetico e immediato di applicazione delle misure di prevenzione e contenimento di carattere generale, per sostenere un modello di ripresa delle attività economiche e produttive compatibile con la tutela della salute di utenti e lavoratori e si pongono in continuità con le indicazioni di livello nazionale, in particolare con i richiamati Protocolli del 14 marzo e del 24 aprile 2020.

Cosa accade se il lavoratore contrae l’infezione Covid-19 e quali sono le conseguenze per il datore di lavoro?

Il Decreto Cura Italia considera il contagio da Covid-19 come un infortunio meritevole di ricevere copertura assicurativa Inail, qualificandosi, pertanto, come un infortunio che schiude un potenziale profilo di responsabilità per il datore di lavoro che non abbia adottato le misure necessarie a prevenirne il rischio.
Preciso che, dal riconoscimento del contagio da Covid-19 come infortunio sul lavoro, non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro.
Come è noto, il datore di lavoro risponde penalmente e civilmente delle infezioni di origine professionale, solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa.
E diversi sono i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail per la tutela relativa agli infortuni sul lavoro e quelli per il riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro che non abbia rispettato le norme a tutela della salute e sicurezza sul lavoro; presupposti che devono essere rigorosamente accertati, attraverso la prova del dolo o della colpa del datore di lavoro, con criteri totalmente diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative Inail.

Al riguardo, si deve ritenere che la molteplicità delle modalità del contagio e la mutevolezza delle prescrizioni da adottare sui luoghi di lavoro, oggetto di continuo aggiornamento da parte delle autorità in relazione all’andamento epidemiologico, rendono estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro.

Sul punto, l’INAIL con una prima circolare (n. 13 del 3 aprile 2020) aveva precisato che “secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie l’INAIL tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto”. Tale circolare aveva destato preoccupazione in molti imprenditori.

Pertanto, l’INAIL si è determinato ad emettere una nuova circolare (n. 22 del 20 maggio 2020), chiarendo che “il riconoscimento dell’origine professionale del contagio, non ha alcuna correlazione con i profili di responsabilità civile e penale del datore di lavoro nel contagio medesimo,  che è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del D.L. 16 maggio 2020, n.33”.

Tuttavia, pur in presenza di tale ultima precisazione dell’INAIL, non va dimenticato che, identificare il contagio da Covid-19 quale infortunio e non malattia, significa, nei casi di prognosi oltre i 40 giorni, automatica iscrizione di procedimento penale a carico del datore di lavoro, trattandosi di reato procedibile d’ufficio.
In una situazione di incertezza scientifica sia sulla natura eziologica del contagio che sulle misure di prevenzione da adottare, è sicuramente raccomandabile che l’Imprenditore adotti una procedura interna di contenimento del contagio, sulla base delle indicazioni contenute nei Protocolli e nelle Linee Guida e ne monitori l’applicazione. 

Anche perché, la mancata attuazione del Protocollo che non assicuri adeguati livelli di protezione, determina anche la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.
E’ altresì consigliato di aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi.

E’ consentito al datore di lavoro, di rilevare la temperatura corporea del personale dipendente, di fornitori, visitatori e clienti all’ingresso della propria sede aziendale?

Si. Il Protocollo prevede, nello specifico paragrafo dedicato alle “Modalità di ingresso in azienda” che Il personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro potrà essere sottoposto al controllo della temperatura corporea. Se tale temperatura risulterà superiore ai 37,5°, non sarà consentito l’accesso ai luoghi di lavoro. Le persone in tale condizione, nel rispetto di determinate condizioni, saranno momentaneamente isolate e fornite di mascherine, non dovranno recarsi al Pronto Soccorso e/o nelle infermerie di sede, ma dovranno contattare nel più breve tempo possibile il proprio medico curante e seguire le sue indicazioni”.

In ragione del fatto che la rilevazione in tempo reale della temperatura corporea, quando è associata all’identità dell’interessato, costituisce un trattamento di dati personali (art. 4, par. 1, 2) del Regolamento UE 2016/679), non è ammessa la registrazione del dato relativo alla temperatura corporea rilevata, bensì, nel rispetto del principio di “minimizzazione” (art. 5, par.1, lett. c) del Regolamento cit.), è consentita la registrazione della sola circostanza del superamento della soglia stabilita dalla legge e, comunque, quando sia necessario documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso al luogo di lavoro.

Diversamente, nel caso in cui la temperatura corporea venga rilevata a clienti (ad esempio, nell’ambito della grande distribuzione) o a visitatori occasionali, anche qualora la temperatura risulti superiore alla soglia indicata nelle disposizioni emergenziali non è, di regola, necessario registrare il dato relativo al motivo del diniego di accesso.

La rilevazione in tempo reale della temperatura corporea, così come il rilascio di una dichiarazione attestante la esistenza di “eventuali prescrizioni imposte dalle autorità sanitarie (autoisolamento, richiesta tampone, ecc.) …presenza di qualsiasi sintomo influenzale durante l’espletamento della prestazione lavorativa” costituendo, come detto, un trattamento di dati personali, deve avvenire ai sensi della disciplina sulla protezione dei dati personali

Dovrà, quindi, essere fornita l’informativa sul trattamento dei dati personali, omettendo le informazioni di cui l’interessato è già in possesso (pertanto, andrà semplicemente integrata l’informativa ai dipendenti già esistente, magari apponendo un cartello all’ingresso dell’azienda); conservare i dati fino al termine dello stato d’emergenza e dovranno essere definite le misure di sicurezza e organizzative adeguate a proteggere tali dati.

Sottolineo che i dati personali di cui si discute, possono essere trattati esclusivamente per finalità di prevenzione dal contagio e non devono essere diffusi o comunicati a terzi al di fuori delle specifiche previsioni normative (es. in caso di richiesta da parte dell’Autorità sanitaria per la ricostruzione della filiera degli eventuali contatti stretti di un dipendente risultato positivo al Covid-19).

Il datore di lavoro può effettuare direttamente test sierologici per il Covid-19 ai propri dipendenti?

No. Il Garante Privacy ha specificato che, nell’ambito del sistema di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro o di protocolli di sicurezza anti-contagio, il datore di lavoro può richiedere ai propri dipendenti di effettuare test sierologici solo se disposto dal medico competente o da altro professionista sanitario in base alle norme relative all’emergenza epidemiologica.

Solo il medico del lavoro infatti, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, può stabilire la necessità di particolari esami clinici e biologici ovvero, può suggerire l’adozione di mezzi diagnostici, quando li ritenga utili al fine del contenimento della diffusione del virus, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie.

Il Garante ha precisato altresì che le informazioni relative alla diagnosi o all’anamnesi familiare del lavoratore non possono essere trattate dal datore di lavoro (ad esempio, mediante la consultazione dei referti o degli esiti degli esami).

Il datore di lavoro deve trattare solo i dati relativi al giudizio di idoneità del lavoratore alla mansione svolta e alle eventuali prescrizioni o limitazioni che il medico competente può stabilire. Le visite e gli accertamenti, anche ai fini della valutazione della riammissione al lavoro del dipendente, devono essere posti in essere dal medico competente o da altro personale sanitario, e, comunque, nel rispetto delle disposizioni generali che vietano al datore di lavoro di effettuare direttamente esami diagnostici sui dipendenti.

Resta fermo che i lavoratori possono liberamente aderire alle campagne di screening avviate dalle autorità sanitarie competenti a livello regionale relative ai test sierologici Covid-19, di cui siano venuti a conoscenza, anche per il tramite del datore di lavoro, coinvolto dal dipartimento di prevenzione locale, per veicolare l’invito di adesione alla campagna tra i propri dipendenti.

Inoltre, i datori di lavoro possono offrire ai propri dipendenti, anche sostenendone in tutto o in parte i costi, l’effettuazione di test sierologici presso strutture sanitarie pubbliche e private (es. tramite la stipula o l’integrazione di polizze sanitarie ovvero mediante apposite convenzioni con le stesse), senza, ovviamente, poter conoscere l’esito dell’esame.

Il datore di lavoro può richiedere ai propri dipendenti di rendere informazioni, anche mediante un’autodichiarazione, in merito all’eventuale esposizione al contagio da COVID 19 quale condizione per l’accesso alla sede di lavoro?

Si. In base alla disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro il dipendente ha uno specifico obbligo di segnalare al datore di lavoro qualsiasi situazione di pericolo per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro(art. 20 del D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81).  

Tra le misure di prevenzione e contenimento del contagio che i datori di lavoro devono adottare in base al quadro normativo vigente, vi è la preclusione dell’accesso alla sede di lavoro a chi, negli ultimi 14 giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al Covid-19 o provenga da zone a rischio secondo le indicazioni dell’OMS. A tal fine, anche alla luce delle successive disposizioni emanate nell’ambito del contenimento del contagio è possibile richiedere una dichiarazione che attesti tali circostanze anche a terzi (es. visitatori e utenti).In ogni caso dovranno essere raccolti solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da Covid-19, e astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva, alle specifiche località visitate o altri dettagli relativi alla sfera privata.

Quali trattamenti di dati personali sul luogo di lavoro coinvolgono il medico competente?

In capo al medico competente permane, anche nell’emergenza, il divieto di informare il datore di lavoro circa le specifiche patologie occorse ai lavoratori.

Nel contesto dell’emergenza, gli adempimenti connessi alla sorveglianza sanitaria sui lavoratori da parte del medico competente, tra cui rientra anche la possibilità di sottoporre i lavoratori a visite straordinarie, tenuto conto della maggiore esposizione al rischio di contagio degli stessi, si configurano come vera e propria misura di prevenzione di carattere generale, e devono essere effettuati nel rispetto dei principi di protezione dei dati personali e rispettando le misure igieniche contenute nelle indicazioni del Ministero della Salute.

Nell’ambito dell’emergenza, il medico competente collabora con il datore di lavoro e le RLS/RLST al fine di proporre tutte le misure di regolamentazione legate al Covid-19 e, nello svolgimento dei propri compiti di sorveglianza sanitaria, segnala al datore di lavoro “situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti”.

Ciò significa che, nel rispetto di quanto previsto dalle disposizioni di settore in materia di sorveglianza sanitaria e da quelle di protezione dei dati personali, il medico competente provvede a segnalare al datore di lavoro quei casi specifici in cui reputi che la particolare condizione di fragilità connessa anche allo stato di salute del dipendente ne suggerisca l’impiego in ambiti meno esposti al rischio di infezione. A tal fine, non è invece necessario comunicare al datore di lavoro la specifica patologia eventualmente sofferta dal lavoratore.

Il datore di lavoro può comunicare agli altri dipendenti e al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza l’identità di un dipendente contagiato?

No. I datori di lavoro, nell’ambito dell’adozione delle misure di protezione e dei propri doveri in materia di sicurezza dei luoghi di lavoro, non possono comunicare il nome del dipendente che ha contratto il virus. Il datore di lavoro deve comunicare i nominativi del personale contagiato solo alle autorità sanitarie competenti e collaborare con esse per l’individuazione dei “contatti stretti”, al fine di consentire la tempestiva attivazione delle misure di profilassi.Sarà onere delle autorità sanitarie competenti informare i “contatti stretti” del contagiato, al fine di attivare le previste misure di profilassi.

Il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza,  proprio nella fase dell’attuale emergenza epidemiologica, dovrà continuare a svolgere i propri compiti consultivi, di verifica e di coordinamento, offrendo la propria collaborazione al medico competente e al datore di lavoro (ad esempio, promuovendo l’individuazione delle misure di prevenzione più idonee a tutelare la salute dei lavoratori nello specifico contesto lavorativo; aggiornando il documento di valutazione dei rischi; verificando l’osservanza dei protocolli interni).
Restano ferme le misure che il datore di lavoro deve adottare in caso di presenza di persona affetta da Covid-19, all’interno dei locali dell’azienda o dell’amministrazione, relative alla pulizia e alla sanificazione dei locali stessi, da effettuarsi secondo le indicazioni impartite dal Ministero della salute.

Avv. ANGELA DELL’OSSO