Smart working si, smart working no

G. Lepre, “in questa modalità si rischia di allargare la platea dei fannulloni”

Smart working si, smart working no: questo il tormentone che sta caratterizzando questi ultimi giorni nel Bel Paese, da sempre colpito dal morbo della ‘fannullite’ e non solo a sud dello stivale.
Uno studio statistico dice che lo smart working, o lavoro da remoto, piace molto agli Italiani, piace ancora di più alle aziende che, in questa modalità, alleggeriscono di parecchio il carico e le spese da sostenere per location fisiche, assicurazioni e quant’altro. Se da una parte si gongola con il lavoro da remoto, dall’altro invece si fanno i conti con ciò che genera l’assenza fisica dai luoghi di lavoro.
A tirare le somme è Confesercenti che stima in oltre 250 mln di euro al mese le perdite di negozi e ristoranti per l’assenza del lavoratore tradizionale.
Prendendo spunto dall’analisi dell’Associazione degli esercenti scende in campo anche il professore Gianni Lepre, opinionista economico del TG2 Rai ed esperto di PMI: “Giá con il Reddito di Cittadinanza avevamo creato una sorta di esercito mantenuti, con lo smart working completiamo l’opera allargando alla platea dei fannulloni che, da remoto, faranno ciò che più li aggrada“.
Brusche e dirette le prime parole dell’economista Lepre che ha poi continuato: “Lo studio di Confesercenti non fa altro che avvalorare quello che già vado dicendo da mesi, cioè da quanto il governo paventava l’idea di continuare lo smart working almeno per tutto il 2020. D’altronde era logico farsi due calcoli e concepire il baratro sociale collaterale che ci attende lavorando da remoto. Non è solo la questione dei fannulloni che ho postulato in precedenza, ma il dato è deflagrante dal punto di vista strettamente economico visto che perderemo due imprescindibili paradigmi della vita moderna: la pausa pranzo e il dopolavoro con perdite di oltre 3 miliardo di euro all’anno.
Alla normalità si torna andando a lavorare fisicamente, riprendendo una vita che ci appartiene e che non può essere rinnegata per colpa di un virus. Legare il nostro lavoro ad una piattaforma dalla quale proiettare noi stessi in un mondo che non esiste più nella sua tradizionale fisicità vuol dire anche, col tempo, modificare i nostri stili di vita, di acquisti, di intrattenimento, di socialità. Onestamente, se è questo il mondo che ci attende perché schiavi di virus, lobby o colossi del web, allora penso che quel congegno che George Orwell chiamava qualcuno lo ha già messo in moto“.